Con questo titolo un po’ bizzarro – che evidentemente richiama famose serie televisive, prima fra tutte The Young Pope – intendiamo proporre alcuni articoli sulla lunga e importante tradizione italiana, radicata in varie regioni della nostra penisola, di produzione di Vin Santo (o Vino Santo). Provenienti da territori e da varietà assai differenti tra loro, da tecniche di produzione apparentemente simili ma che in fondo nascondono “segreti” molto particolari, questi vini propongono non solo piacevolezze personalissime ed entusiasmanti ma anche veri e propri concentrati di storia e cultura, non solo agricola o vitivinicola. Proporremo un episodio a settimana. Qui potete leggere il precedente.

 

Il VIN SANTO è uno dei prodotti maggiormente legati alla memoria della nostra gente, evoca l’immagine della campagna, del mondo rurale, della famiglia colonica. Non c’era famiglia contadina in passato che non possedesse in casa una bottiglia di Vin Santo con cui riempire un bicchierino per gli ospiti, come simbolo di amicizia ed ospitalità: era il protagonista per eccellenza di ogni ricorrenza che meritasse un brindisi.

Non si sa precisamente perché questi vini venissero chiamati “Santi”, in maniera comune nelle varie regioni d’Italia; non esiste una documentazione certa, si possono solamente avanzare delle ipotesi, più o meno fantasiose. Una è legata al Concilio di Firenze del 1439, e precisamente all’episodio in cui l’arcivescovo di Nicea Bressarione, assaggiando un calice di vino dolce locale a fine banchetto, esclamò “Xantos” riferendosi evidentemente ad un vino simile originario della storica cittadina della provincia di Antalya: i commensali però intesero che il termine fosse stato esclamato per esaltare il vino servito. Ma il termine Xantos in greco significa anche “giallo”, e in questo caso verrebbe ricondotto al colore dorato carico che quasi sempre questo genere di vini presentano.

Vantano maggiore credibilità le tesi che ricollegano i vari Vin Santo alle pratiche liturgiche, in particolare all’introduzione dei vini prodotti dai monaci benedettini durante l’ufficio dell’eucarestia. Oppure alle (presunte) doti terapeutiche, e quindi in odore di santità, attribuite a questi vini che venivano somministrati in caso di malattie gravi o durante le epidemie. Risultano più convincenti, infine, le ipotesi che collegano i cicli produttivi del Vin Santo – spremitura delle uve, colmatura dei caratelli, svinatura, imbottigliamento – con le principali feste religiose: c’è chi per tradizione imbottigliava questo nettare nel giorno di Ognissanti (1 novembre), chi spremeva le uve per Natale e chi, come ancora oggi si fa in Trentino, pigiava le uve appassite durante la Settimana Santa.

 

VIN SANTO TOSCANO

In Toscana la produzione di Vin Santo è una vera e propria arte, praticata già dal Cinquecento. Il primo passo è la paziente raccolta dei migliori grappoli di trebbiano e malvasia del Chianti, che devono avere acini radi e buccia spessa, quindi si procede con l’appassimento delle uve nei tradizionali essiccatoi – locali ampi, ben ventilati e con temperature tra i 10 i 15 gradi – ponendole su stuoie di canne o in cassette di legno, tali da permettere il passaggio dell’aria e quindi la perdita di umidità; un altro metodo per appassire l’uva consiste nel lasciare appesi al soffitto i grappoli su appositi telai in ferro. In entrambi i casi il periodo di appassimento dura dai 20 giorni ai 3 mesi.

Al termine, quando la percentuale di zucchero nelle uve ha raggiunto il livello ottimale (30-40% per i vin santi dolci e 25-28% per i vin santi secchi), si procede con la pigiatura. Nella consuetudine antica il mosto – con o senza presenza delle bucce, a seconda della tradizione di famiglia – veniva poi trasferito in caratelli di legni diversi e di dimensioni variabili (in genere tra 15 e 50 litri) da cui era stato appena tolto il Vin Santo della produzione precedente. Durante questa operazione si prendeva cura che la feccia presente non uscisse dal caratello in quanto la si credeva responsabile della buona riuscita del Vin Santo stesso, tanto da chiamarla “la madre”.

I caratelli, riempiti all’80-85% di vino nuovo, venivano quindi sigillati e in genere dislocati nelle soffitte delle ville padronali o comunque in un sottotetto coperto e ben ventilato, dove il vino fermentava lentamente e si affinava per un periodo di almeno tre anni, anche se alcuni produttori lo invecchiavano (e lo invecchiano tuttora) per più di dieci. Alla fine si calcola che per spillare, dai caratelli, 25 litri di Vin Santo finito occorra all’inizio almeno un quintale di uva fresca.

Ecco alcuni consigli:

Badia di Morrona – Vin Santo del Chianti

Aromi di albicocca passita e liquirizia per un corpo denso avvolgente e bilanciato, un Vin Santo che unisce la tradizione esecutiva a un gusto centrato sulla dolcezza espressiva.

 

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